Territorializzazione delle grandi opere: la lezione di Luigi Bobbio

Il 9 ottobre è mancato di vita Luigi Bobbio, politologo e già ordinario di Analisi delle politiche pubbliche presso la Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino.

Tra i maggiori esperti italiani in materia di processi consensuali per la risoluzione di conflitti ambientali e territoriali, ha offerto non soltanto fondamentali contributi di studio ma un apporto concreto e diretto a iniziative fortemente innovatrici come il processo partecipato per la scelta di siti di smaltimento rifiuti (Provincia di Torino, 2000-2001), l’elaborazione di legge regionale sulla partecipazione (Regione Toscana, 2006-2007), il dibattito pubblico sulla gronda di Ponente (Comune di Genova, 2009).

In questa sede vogliamo ricordare come lo studioso riuscisse a coniugare l’approfondimento teorico con concretezza e originalità di visione, ripercorrendo i diversi momenti in cui si dedicò al tema della nuova linea Torino-Lione.

Il primo contributo, del 2006, fu l’articolo Discutibile e indiscussa: l’Alta velocità alla prova della democrazia (“Il Mulino”, n.423). Requisitoria serrata contro un’opera avvertita dalla comunità locale come imposta dall’alto, per mancanza di coinvolgimento e dialogo con il territorio. Di qui la convinzione che “gli uomini di governo abbiano ancora la testa immersa nello spirito dello stato novecentesco, esclusivo interprete dell’interesse generale. Le proteste locali sono accolte con fastidio, come un impaccio egoistico che non merita attenzione e da cui ci si dovrebbe liberare al più presto”. Ragion per cui, mentre in Francia si collaudava felicemente l’istituto del débat public, “da noi, è stata compiuta, con la «legge obiettivo», la scelta diametralmente opposta: quella di troncare sul nascere qualsiasi dibattito, conferendo pieni poteri alle autorità centrali e tappando la bocca ai governi locali. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi”. Ovvero il blocco del progetto dopo le grandi manifestazioni di Venaus. In altre parole: “la storia della Tav in valle di Susa è un esempio assolutamente emblematico del punto morto a cui conduce un certo modo, arrogante e decisionista, di pensare alle grandi opere pubbliche”.

Nel 2008, Bobbio pubblicava in collaborazione con Egidio Dansero, docente di Geografia economico-politica nell’Università di Torino, la monografia La TAV e la valle di Susa. Geografie in competizione (Allemandi). La tesi forte era che lo stato d’impasse del progetto non derivasse, come da più parti sostenuto, da insufficienza di decisionismo, ma, al contrario, da suo eccesso, “ossia dall’incapacità dei promotori del progetto di ascoltare le voci critiche e quindi di definire l’interesse generale in termini credibili di fronte all’opinione pubblica”. Chiave di lettura del conflitto l’ opposizione irrisolta tra

due visioni alternative della Valle di Susa, o, possiamo anche dire, due geografie o due territorialità esclusive costruite su scale diverse, che hanno proposto due processi di territorializzazione contrapposti. L’analisi di questa dicotomia ci porta a intravedere una possibile via di integrazione, ancora mal definita, che potrebbe permettere di procedere verso una territorializzazione condivisa e capace di rispecchiare le diverse geografie che si sono contese la scena.

Del 2011 l’articolo Conflitti territoriali: sei interpretazioni (“TeMA”, 4 dicembre 2011, pp. 79-88). Poco propenso a una trattazione generalizzante della complessità fattuale, Bobbio considerava i conflitti territoriali “fenomeni a molte facce”. Di qui l’identificazione di diverse forme di “narrazione” (con finalità localmente circoscritte  oppure più dilatate; utili a screditare gli oppositori oppure i sostenitori) e un monito importante: “se ci concentrassimo – come spesso viene fatto nel dibattito corrente – su una sola di esse, rischieremmo di accontentarci di una visione semplificata e, per ciò stesso, distorta”.

Dell’anno successivo Che cos’è veramente in gioco attorno alla Tav (“Il Mulino”, 6 marzo 2012). Vi si legge in apertura:

Quello che è sfuggito alla maggior parte dei commentatori che in questi giorni sono intervenuti sugli scontri in valle di Susa è che la Tav di cui oggi si parla è una cosa molto diversa dalla Tav contro cui la valle insorse nel 2005. Allora si trattava di un’opera imposta senza alcun confronto con i territori interessati, oggi invece siamo di fronte a un progetto che è stato ridiscusso punto per punto per ben cinque anni tra tecnici di fiducia di tutte le parti coinvolte compresi i sindaci della valle. […] Non esiste nessun’altra opera pubblica in Italia che sia stata affrontata attraverso un processo così approfondito, inclusivo e attento ai problemi del territorio. L’Osservatorio sulla linea Torino-Lione è stato veramente un unicum.

Occorreva tuttavia prendere atto che le pur importanti novità non erano state affatto risolutive del conflitto. E ciò, scriveva Bobbio, perché da un lato “l’Osservatorio ha lavorato eccessivamente al chiuso, ha prodotto documenti innovativi e utilissimi ma poco abbordabili, non ha saputo intrattenere una relazione diretta con i territori.”. Dall’altro il governo nazionale non ha fatto la sua parte: “Il problema è infatti quello di spostare le merci dalla gomma al ferro. Ma il governo italiano è veramente intenzionato a promuovere una seria politica di trasferimento modale, come hanno fatto Svizzera e Austria? Per adesso si direbbe di no. E questo getta pesanti ombre sull’intera operazione.” Manchevolezze gravi anche dalla controparte:

In tutti questi anni il movimento no-Tav ha osteggiato qualsiasi apertura al dialogo. Ha considerato l’Osservatorio come un imbroglio e ha tacciato di tradimento i sindaci che vi partecipavano. Oggi, quando i sostenitori del movimento, come Paolo Ferrero, sostengono che “il governo ha il dovere di aprire un confronto con la popolazione della Val di Susa e con i suoi rappresentanti, al fine di determinare quel dialogo che sin qui è stato impossibile”, sembrano ignorare che questo confronto c’è stato eccome, che ha prodotto risultati importanti, ma che sono stati proprio i comitati no-Tav a sottrarsi a qualsiasi forma di discussione.

In conclusione un interrogativo.

L’ideologia contro le grandi opere è figlia dell’ideologia delle grandi opere. È possibile spezzare questa feroce – e per certi versi assurda – contesa? Avremmo bisogno di un disarmo bilaterale che sapesse affrontare il nodo delle infrastrutture di cui l’Italia ha veramente bisogno, attraverso una riflessione collettiva e strutturata. Non è facile, ma ci si potrebbe provare.

Contemporaneamente alla stesura dell’articolo, Bobbio dava un apporto diretto a un progetto concreto di cambiamento collaborando con altri esperti (Jean-Michel Fourniau, David Laws, Iolanda Romano, Marianella Sclavi) alla stesura di un documento pubblicato sul nono Quaderno dell’Osservatorio, Contributi all’approccio decisionale alle grandi opere (20 aprile 2012). Utile all’emenda degli errori del passato, il documento tratteggiava un percorso decisionale partecipato, articolato in pianificazione e programmazione strategica, individuazione dell’infrastruttura, progettazione, realizzazione, modello d’esercizio e gestione.  Un programma avanzato che tuttavia sembrava correre il rischio di rimanere sulla carta, fino ai  primi mesi del 2016, quando con il DEF e la riforma del codice degli appalti  si sono introdotti nuovi strumenti di pianificazione e programmazione nazionale e si è abrogata la Legge Obiettivo. Con l’impegno a definire la procedura del nuovo istituto del dibattito pubblico sui progetti di fattibilità di grandi opere. E persino la preoccupazione di Bobbio, relativa alla sincerità dell’impegno governativo in ordine al rilancio del trasporto ferroviario, sta trovando oggi confortanti riscontri nella cosiddetta “cura del ferro”, da due anni intrapresa.  La strada tardivamente aperta verso il nuovo è dunque inaugurata. Sarebbe stato estremamente utile percorrerla con il monitoraggio lucido e schietto di Luigi Bobbio.

 

Beppe Gillio

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